IL VELO E IL VERO

PECKINPAH, IL CAOS, IL MUCCHIO SELVAGGIO E LA ‘SCOPERTA’ DELL’AMERICA

Billy: “Chi sei tu?”
Alias: “Bella domanda”
Pat Garett e Billy the Kid, 1973

 

Se il Cinema non può aiutarci propriamente a vivere, può però integrare, se non sanare il nostro sguardo, può svelare, soccorrerci almeno nell’aprire varchi al vedere e al comprendere in forme più profonde.
Nei processi spettatoriali, lo spettatore si nutre dello sguardo del resista e dello sceneggiatore, ovvero di chi ha già reso una certa realtà una materia osservabile, osservata e infine trattata.
Nel caso del genere western il cinema ha usato tutto il suo potere mitopoietico e l’immediatezza narrativa per costruire illusioni e, per dirla più concretamente e crudemente, collocare prosciutti sopra gli occhi.Per il regista prima del dirigere gli attori c’è la necessità di interrogarsi, di indagare su di sé e i fermenti sociali nella responsabilità di saperli cogliere e rappresentarli con lucidità.
Nella seconda metà degli anni ’60, dopo la seconda guerra mondiale, l’aggressività non si sopì, né si trasformò e per gli Stati Uniti giunse la tragedia della guerra del Vietnam, la guerra sporca per eccellenza.

Il Western, di per sé sottogenere del cinema storico, è molto più di un genere cinematografico. E’ il genere cinematografico più antico, che per quanto abbia avuto un importante funzione nazionale identitaria raccontando la storia degli Stati Uniti tra corsa all’oro e l’avanzare della ferrovia, si è diffuso con sorprendente successo in tutto il mondo. Sergio Leone sostenne che Omero fu il più grande scrittore western e i suoi personaggi assomigliano al West americano.
E’ un genere duro, ipermaschile, fiaba virile fintamente virilizzante che nel suo tentativo di farsi epico intende descrivere le origini di un Paese con poca storia, ma finisce spesso per nascondere un approccio colonialistico e cannibalico al territorio fino a farsi strumento politico.

La prova spettatoriale certamente più difficile rimane quella dell’esposizione alla violenza, soprattutto nelle sue rappresentazioni gratuite ed eccessive, laddove un certo velo risulterebbe perfino protettivo.

Per quanto la struttura dello spazio tipico di questo cinema e composto di territori sconfinati abbia indotto la spinta predatoria dei bianchi, per decenni l’industria culturale americana del Western ha prodotto immagini stereotipate dei nativi, selvaggi primitivi e urlanti, senza cultura e senza Dio.

Sam Peckinpah (1925-1984) fu uomo irrequieto, iroso e geniale. In gioventù visse vagando tra boschi e montagne malsopportando la rigida educazione dei genitori. In lui l’Uomo e l’Artista si fecero inscindibili. Fu padre assente, marito infedele e alcolista, sensibile e innovativo, ma certamente fuori dal coro. Nei suoi contratti vi era spesso una clausola che gli impediva di bere prima delle cinque del pomeriggio.

Fu autore senz’altro credibile in quanto mezzosangue discendente di due tribù di pellirosse americani, egli stesso fu uomo del West, figlio della Frontiera americana, la Sierra Nevada al confine con il Messico, zona liminale della coscienza e luogo perfetto per perdersi. Sul set era solito dare inizio all’azione con un colpo di pistola.
In un’intervista Peckinpah disse “Nel West non ci sono eroi. C’è solo gente che ha paura della vita. Per questo spara, ammazza, rapina. Ed è per questo che li chiamano desperados”. Non a caso un sinonimo per cow boy nella zona tra il Texas e il Messico è desperado.
La violenza è l’estensione naturale del senso di alienazione e di sradicamento che il bisogno anarchico rende alla fine insanabile.

Il suo cinema lo rispecchiò pienamente. Ex Marine e soldato in guerra, per quanto non avesse partecipato ad alcuna azione bellica, egli stesso cane di paglia, anima antica dell’America, per alcuni versi resistente al nuovo, eppure ribelle, non accettò mai la retorica intorno al pionierismo americano e visse per sempre il senso tragico della perdita.
Incarnò il senso dell’Artista assoluto, incapace di accettare compromessi. Le liti più furiose riguardarono sopratutto la Produzione in merito ai final cut.

James Coburn, attore e amico del regista, ricorda che di sè il regista diceva di essere un alcolista che lavora. Fu il caos, quel dionisiaco niciano, che volle rappresentare nei suoi film con le innumerevoli amanti e prostitute e l’alcol sempre al centro della sua vita.

Peckinpah fu il nuovo Cinema Western, dopo quello classico di John Ford fatto per cementare l’unità nazionale, animato da coloni attaccati dai selvaggi indiani, di diligenze e carovane, di ranch, di buoni sentimenti, di ordine e di senso della comunità.
Packinpah dopo molta televisione giunse al cinema e in particolare a quello western alla fine della parabola di Ford che con il suo L’uomo che uccise Liberty Valance del 1961 aveva illustrato l’incontro tra l’uomo dell’Est, istruito e senza pistola, con l’uomo dell’Ovest, il rude cow boy.
Ruppe così il velo edulcorante che impediva di vedere il mondo vero del West fatto di farabutti, soggetti eticamente discutibili, brutali e cinici, con i suoi tipici ralenti e i montaggi frenetici.
Dunque portò il Genere dal livello maturo a uno moderno in una necessaria prospettiva revisionistica allorquando il Western poteva considerarsi nella sua fase crepuscolare fino a sbriciolare il Mito.
La stampa americana lo soprannominò riduttivamente Bloody Sam, il cantore del Western sporco con i suoi personaggi immorali, ma la sua fu piuttosto una Poetica della Violenza.
A una presentazione riservata del film, molti giornalisti gli chiesero se non avesse oltrepassato un limite. Replicò così: “C’è una linea molto, molto sottile e penso che noi abbiamo operato il più possibile in prossimità di essa. Speriamo che, per la maggior parte degli spettatori, siamo rimasti al di qua di quella linea. Ma sono disposto ad ammettere che in certi punti potremmo averla superata. Noi siamo convinti che la violenza sia una forma di catarsi, di liberazione, a volte quella linea è difficile a individuare. Per dire la verità, io stesso non riuscivo più a vedere questo film. E richiedeva un eccessivo impegno emotivo”.

Ma già Sergio Leone, con cui il regista americano si sentiva maggiormente in debito, concepì il Western in uno stile narrativo manieristico fatto di tempi dilatati scanditi dalla musica di Morricone, di cavalieri solitari e di duelli come precise liturgie. Nel suo Per un pugno di dollari la violenza cominciò a farsi realistica. E’ proprio da qui che divenne possibile per Stanley Kubrick concepire il suo Arancia meccanica.
Ma Leone e Peckinpah in realtà presero la lezione di Akira Kurosawa con l’ormai mitico I sette samurai in cui si racconta del Giappone medioevale dei predoni, lezione peraltro estesa a molti se si considera L’Armata Brancaleone di Monicelli.

Ma alla fine anche Peckinpah, suo malgrado, divenne un maestro. La sua visione influenzò molti illustri registi a seguire. Walter Hill, nato a Long Beach, ormai l’ultimo westerner realizzò il suo cinema non prescindendo mai dalla frontiera con quella affezione particolare ai maverick e ai fuorilegge, uomini nati liberi non marchiati come il bestiame. John Woo vide Michelangelo nella struttura delle sue inquadrature fino a diventare un esteta della violenza così come è stato definito, Oliver Stone con Assassini nati e Quentin Tarantino con Le iene

Fu testimone del passaggio dall’Individuo eroico al gruppo violento e caotico, che si muove scompostamente in assenza di regole e di etica, registrando la caduta e l’autoannientamento.

In Mucchio Selvaggio del 1969, ispirato alle gesta del bandito Butch Cassidy e la sua banda chiamata per l’appunto the wild bunch, illustra un mondo in cui si fatica a distinguere il buono dal cattivo e dove c’è molto Mucchio e poco Individuo.
Già nella prima scena in cui in una cittadina polverosa compare un gruppo di bambini a piedi nudi e sporchi di terra, accovacciati e ridacchianti che si diverte a torturare e infine bruciare alcuni scorpioni attaccati da centinaia di formiche rosse, lo spettatore è introdotto in un Western non convenzionale e per taluni scomodissimo.
Qui si narra la storia di adulti che fanno i bambini e non vogliono crescere fino a quando arriva la morte a interrompere ogni possibilità. Si tratta di losers, perdenti che sanno di esserlo, ma vogliono essere comunque vivi. Nel film tutto e tutti fanno mucchio, i bambini che bruciano le formiche, i rapinatori di banche, i cacciatori di taglie e i peones di Pancho Villa.
Non c’è speranza, né pietà per nessuno, neppure per le donne.

Era la prima volta che il cinema mostrava al rallentatore i corpi crivellati dai proiettili, mentre sanguinavano e sporcavano lo spettatore, in una quasi coreografia della morte. Il regista volle essere presente in sala durante le prime proiezioni per osservare ciò che assomiglierebbe a un esperimento di Psicologia sociale.
Osservò come il pubblico fosse inorridito e qualcuno usciva dal cinema per andare a vomitare nel vicolo adiacente, ma al contempo era attratto da ciò che vedeva come se riconoscesse la propria violenza, una tribalità e un’animalità sotterranee, una specie di Perturbante freudiano.

L’effetto ammucchiante e disgregante si fece totale in Pat Garret e Billy the Kid del 1973, capolavoro in parte incompreso, ancora una volta saturo di una violenza esibita o latente, dove si celebra la lacerante perdita dell’amicizia e della lealtà come valori assoluti sulle note elegiache di Bob Dylan.
Nel dicotomico dilemma tra passato e presente i personaggi sono costretti a fare scelte, per quanto ispirate dall’opportunismo.
Garrett, prima pistolero, poi sceriffo, uccide a bruciapelo in un agguato notturno, tra i più meschini dei tradimenti, Billy, un tempo suo amico, con un colpo di pistola, ma spara anche allo specchio uccidendo sè stesso o almeno ciò che era stato, un fuorilegge nel suo vitale e libero esistere.
Ventisei anni dopo Garrett fu ucciso anch’egli in un’imboscata da un pistolero.

Dalla metà degli anni ‘70 Peckinpah si abbandonò a uno stile di vita completamente disregolato e selvatico e la salute peggiorò. Squattrinato, si accampò nella sua roulotte a Paradise Cove, un parcheggio a Malibù, dove organizzava party con gli amici, facendo sempre più uso di anfetamine e alcol, mangiando e dormendo poco. Di notte ubriaco sparava sulle pareti della casa accanto.

Tutto il cinema di Peckimpah genera una forte tensione nello spettatore, procede irregolarmente e bruscamente. I personaggi con le loro facce livide e segnate dalla vita per quanto ondivaghi e predatori, sono prigionieri della loro violenza, ma, perlomeno, sono veri come i soggetti di Caravaggio.
Sembra di assistere a un grande psicodramma senza guarigione per nessuno.
La violenza per quanto esasperata non è mai compiaciuta. Renderla pienamente visibile equivale a non negarla.

Nella grande visione di Peckinpah il Western non fu mai puro intrattenimento, fu molto di più di uno stile narrativo convenzionale. Fu piuttosto un linguaggio universale capace di trattare tematiche sostanziali fino a interrogare la coscienza di un’intera nazione.
Nelle sue interviste amava dire “Non ho mai fatto un western, ho fatto parecchi film con uomini a cavallo”

Fu accusato peraltro di essere un misogino e un maschilista. Ma in realtà l’universo femminile a cui si ispirò è rappresentato variamente così come l’umanità si offre all’osservatore maturo tra immoralità e modello di fierezza e forza.

Per Paul Schrader, sceneggiatore, regista e fine critico cinematografico americano, già sconvolto dalla visione de Il mucchio selvaggio, autore di Taxi driver, ammirò del regista particolarmente ciò che definì un coraggio speciale di scavare dentro di sé per far emergere la parte più nascosta e terribile e mostrarci l’inferno personale.

A 59 anni morì stroncato da un ictus, con tre pacemaker.

 

PICCOLA BIBLIOTECA TEMATICA

James Cooper nello scrivere il suo L’ultimo dei mohicani agli inizi dell’800 non potè sottrarsi al suo sguardo di europeo per cui nel romanzo si respira l’incanto per la maestosità del nuovo mondo e della natura, un sentimento che certamente appartenne ai bianchi che approdarono per la prima volta in quelle terre, si descrive la lotta tra inglesi e francesi per il controllo del Nordest americano a metà del ‘700, ma si indugia su una certa idea inevitabilmente stereotipata del selvaggio. La sua non fu banalmente letteratura d’evasione in quanto prefigurava inconsapevolmente la nascita di una nuova nazione.
Se si muovono ammazzali è una biografia dettagliatissima di Peckinpah redatta da David Waddle, il cui titolo è tratto inevitabilmente dall’opera più rappresentativa del regista, Il Mucchio selvaggio.
Con Non è un paese per vecchi Cormac McCarthy, ispirato nel titolo da un verso del poeta inglese Yeats, guida il lettore moderno a leggere la propria modernità, portandolo ancora una volta sugli stessi luoghi, al confine tra Texas e Messico in un’area desertica a osservare una violenza oltremisura, che travalica ogni contenimento valoriale e immaginazione, a riprova di una decadenza sociale inarrestabile.
Spesso le storie personali si intrecciano con le creazioni artistiche. Geoffrey Macnab ha raccontato l’alcolismo di Schrader, la sua depressione e il suo vagabondare notturno per New York tra un cinema porno e un altro, ma anche tutto quel ricco nucleo culturale ispirativo che alimentò Taxi Driver fatto delle Memorie del sottosuolo di Dostojevskij, del cinema di Bresson e di Peckinpah e della pittura di Hieronymus Bosch e che alla fine generò il tassista psicopatico del Bronx.

L’ultimo dei mohicani JAMES FENIMORE COOPER 1826
Se si muovono ammazzali DAVID WADDLE 1996
Non è un paese per vecchi CORMAC McCARTHY 2005
The making of Taxi Driver GEOFFREY MACNAB 2006

 

PICCOLA CINETECA TEMATICA

Il genere Western, scenario perfetto per rappresentare l’eterna lotta tra Bene e Male, nella sua evoluzione consente allo spettatore di compiere un percorso mentale assai peculiare tra il velo e il disvelare. Ha dimostrato di morire e risorgere più volte in molte forme.
Pur nella sua tipologia classica il punto di svolta avvenne in Ombre rosse, il cui titolo originale Stagecoach, in italiano diligenza, già richiama suggestivamente il tema del viaggio e della riabilitazione del più debole, per cui Ringo Kid, pur fuorilegge, riuscirà a rifarsi una vita.
In Mezzogiorno di fuoco (Zinneman 1952), dal titolo originale più asciutto, High Noon, nell’America del 1870 il regista austriaco Fred Zinnemann concepisce l’intera narrazione in tempo reale intorno a un duello. La musica di Dimitri Tiomkin scandisce e amplifica il senso terribile dell’attesa per uno sceriffo solo e abbandonato da tutti, in abiti scuri, e alle prese con il destino e il dovere.
I magnifici sette (Sturges 1960) propone un Western adulto con John Sturges, già montatore di molti film western nella difficile prova di ripetere Kurosawa. Girato nel deserto di Cuernavaca, ambientazione più che credibile per un America del 1880 in cui sull’esaltante colonna sonora di Elmer Bernstein si muove un gruppo di pistoleri, esseri randagici in cerca di una forma occulta di redenzione in difesa di un villaggio di contadini messicani vessati.
In Per un pugno di dollari (Leone 1964) c’è Joe, un pistolero che giunge in un piccolo villaggio a dorso di mulo. Sergio Leone, regista romano, a 35 anni abbandona il genere peplum, film con ambientazioni greco-romane, e si dedica a rimodellare il Western. Per quanto ispirato a La sfida del Samurai di Kurosawa (Kurosawa 1954), il film ha una sua forte originalità con i suoi primissimi piani e un sound design sui generis caratterizzato dallo schiocco della frusta, le note profonde date da una Fender distorta e il fischio.
Il mondo valoriale della Frontiera è ulteriormente sgretolato ne I Compari di Altman (Altman 1971), la migliore prosecuzione de Il mucchio selvaggio, in cui però scompare il sole e sulla scia di una nuova estetica iperrealistica del Western, attraverso la prospettiva affaristica di un truffatore e una matresse, McCabe & Mrs Miller, peraltro titolo originale dell’opera, si definisce senza più dubbi il senso vero delle cose. Si tratta di un Western anomalo, ambientato in Canada agli inizi del ‘900 tra pioggia, neve e carbone, topoi atipici del genere, sulle note di Leonard Cohen.
Nel ricorrente confronto tra civiltà e inciviltà, mai correttamente inquadrato, Un uomo chiamato cavallo (Silverstein 1970) narra di un nobile inglese catturato dai Sioux nei primi dell’800, schiavizzato e poi riscattato nella sua possibilità di rinascita culturale.
Alex De Large in Arancia meccanica (Kubrick 1971) si muove in città facendo branco con i suoi drughi con la violenza brutale e insensata di un giovane disturbato.
In Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Pollack 1972), il primo vero Western revisionista, dal titolo originale più che mai identitario di Jeremiah Johnson, si mette in scena il tentativo di un ritorno alla purezza per un reduce della guerra messicano-statunitense, ispirato a un trapper realmente esistito, che sceglie di uscire dal gregge andando a vivere solo sulle montagne del Colorado.
Paul Schrader, fine sceneggiatore ispirato dall’esistenzialismo di Sartre, scrive per Scorsese Taxi Driver (Scorsese 1976), altro Western urbano. E’ la storia di un ex marine insonne e reduce del Vietnam. Taxi Driver fu scritto in dieci giorni da un Paul Shrader ventinovenne disperato e alla ricerca di un ingaggio come sceneggiatore. All’epoca si sentiva come Travis Burkle, un disperato che cerca disperatamente di sentirsi vivo, un nessuno che sogna di diventare qualcuno. In molte interviste ha sostenuto di essere sempre stato interessato ad scoprire l’America vera, una terra intrisa di sangue.
Robert Altman in Buffalo Bill e gli indiani (Altman 1976), che nel titolo originale è arricchito dal magnifico riferimento alla statura morale della figura di Toro Seduto (and Sitting Bull’s history lesson), mette mano al mito fondante americano rappresentando la fase decadente di un personaggio eroizzato come William Cody, alias Buffalo Bill che a cavallo tra ‘800 e ‘900 gira il mondo con il suo triste circo, praticamente un ammucchiata, che estremizza la manipolazione della verità storica e diventa inganno collettivo.
Gli spietati (Eastwood 1992), dal titolo originale certamente più denso, The Unforgiven, rifiutato alla Mostra di Venezia vinse 4 Oscar, illustrando la forza narrativa di una storia che, pur nell’indicibile, ha a che fare con il perdonarsi.
In Assassini nati (Stone 1994), sceneggiato da Tarantino per Stone, la violenza è perpetrata in coppia e presentata amoralmente con estrema sfacciataggine, senza veli, in una volontà di potenza quasi niciana. Nel film si rincorrono sequenze visive in cui appaiono insetti e animali che si divorano l’un l’altro.
Walter Hill in Geronimo (Hill 1993) perde in parte la sua verve registica dovendosi adattare alla sceneggiatura di Milius e narrando di un Geronimo, dei Apaches Chirikahua, popolazione particolarmente bellicosa, che nel 1886 fu l’ultimo capo indiano ad arrendersi rimanendo guerriero indomito fino alla sua fine in una riserva della Florida.
Il film pluripremiato dei fratelli Coen (Coen 2007), Non è un paese per vecchi racconta di una storia avvenuta nel Texas degli anni ’80.
Sulla scia del Rinascimento Western, Ti West, regista per lo più vocato all’Horror, Nella valle della violenza narra la storia di Paul, un disertore stanco di uccidere che nella sua fuga verso il Messico in compagnia della sua amata cagnetta si imbatte nell’impossibilità di evitare la violenza altrui. Qui il tentativo di uscire dal mucchio necessita di un percorso lungo e tormentato.

Ombre rosse JOHN FORD 1939
Mezzogiorno di fuoco FRED ZINNEMAN 1952
I magnifici sette JOHN STURGES 1960
Per un pugno di dollari SERGIO LEONE 1964
I compari ROBERT ALTMAN 1971
Un uomo chiamato cavallo ELLIOT SILVERSTEIN 1970
Arancia meccanica STANLEY KUBRICK 1971
Corvo rosso non avrai il mio scalpo SIDNEY POLLACK 1972
Taxi Driver MARTIN SCORSESE 1976
Buffalo Bill e gli indiani ROBERT ALTMAN 1976
Gli spietati CLINT EASTWOOD 1992
L’ultimo dei mohicani MICHAEL MANN 1992
Assassini nati OLIVER STONE 1994
Geronimo WALTER HILL 1993
Non è un paese per vecchi JOEL E ETHAN COEN 2007
Nella valle della violenza TI WEST 2016