GIULIO II, MICHELANGELO, MOSE’, VASARI, FREUD E ANTONIONI
TRA TERRIBILITA’, TURBAMENTO, DIREZIONE E IMMATERIALE
C’è una vicenda umana e artistica lunga che riguarda lo Sguardo e che ha attraversato più secoli e coinvolto più attori illustri; un papa, uno scultore, un personaggio biblico, uno storico dell’Arte, uno psicanalista e un regista.
Tutto avvenne perché lo sguardo se non è tutto è molto per tutti. Innanzitutto lo sguardo è una conferma identitaria; è l’equivalente non verbale per “tu esisti”. La porzione del volto che contiene gli occhi costituisce l’area più rilevante a cui gli esseri umani prestano attenzione per cui ha un potere ipnotico.
Gli esseri umani sono chiamati a gestire un’ampia complessità che lo sguardo reca in sé tra intensità, mobilità e direzione con tutti i suoi retroscena affettivi ed emotivi e le implicazioni interpretative tra il sé e gli altri. Con gli occhi gli esseri umani fanno molte cose fluttuando tra attivo e passivo: mostrano interesse dilatando le pupille, possono essere tutt’occhi e mille occhi oppure tenere lo sguardo basso, così come piantare gli occhi addosso e non riuscire a staccarli, fino a fulminare o divorare con gli occhi. Possono non battere ciglio e avere lo sguardo dritto e fermo o avere lo sguardo sfuggente.
Nel 1505 Giulio II della Rovere, colui che non passò inosservato nella storia e fu noto come il Papa guerriero, uomo dalle ampie vedute, informato dell’eccezionale talento di Michelangelo e del suo David, la meravigliosa statua realizzata a Firenze, lo convocò a Roma per commissionargli la sua tomba monumentale che inizialmente prevedeva quaranta statue, ma mentre questi era intento a selezionare i migliori marmi a Carrara, operazione che durò otto mesi, cambiò idea pensando che fosse di cattivo auspicio.
Il papa, uomo pienamente rinascimentale, aveva già attratto a sè il Bramante e da lì a breve avrebbe chiamato Raffaello allo scopo di restaurare l’antica grandezza artistica di Roma e di renderla mirabile più che mai.
Tornato a Roma Michelangelo vi trovò un ambiente ostile. Il papa non volle riceverlo e dopo vari tentativi tornò a Firenze indignato. Appreso della sua partenza il papa lo fece inseguire dai suoi corrieri per ricondurlo a Roma senza successo. Dovette minacciare Firenze di guerra per riavere Michelangelo a sè.
Michelangelo, uomo assai schivo, condusse una vita ritirata nella sua bottega lontano dalla corte e dalla conflittualità con gli altri artisti. Non ebbe molti allievi diretti. Il suo sguardo fu esclusivamente rivolto all’Arte, seppure cercò l’Amore come testimoniano alcuni sonetti ritrovati.
Amò la scultura alla follia al punto da parlare con i suoi marmi.
Michelangelo, uomo assai schivo, condusse una vita ritirata nella sua bottega lontano dalla corte e dalla conflittualità con gli altri artisti. Non ebbe molti allievi diretti. Il suo sguardo fu esclusivamente rivolto all’Arte, seppure cercò l’Amore come testimoniano alcuni sonetti ritrovati.
Amò la scultura alla follia al punto da parlare con i suoi marmi.
La scultura, arte per il Buonarroti di per sé più eroica della pittura, assolutamente materica, simboleggia l’eterna lotta tra la Carne e lo Spirito; la Figura fatica per liberarsi della Materia, ma una volta estratta esiste pienamente. Michelangelo era talmente abbagliato dal bianco luminosissimo del marmo di Carrara da credere nella sua genesi divina.
Cosicchè quando affidata alle mani di maestri assoluti l’Arte più pesante diventa la più leggera, la più immobile diventa mobilissima come nell’Apollo e Dafne del Bernini.
Per di più la scultura, per sua natura, dona una visione a tutto tondo, conferisce corposità allo sguardo di ogni osservatore consentendone una fruizione totalizzante. Così, a sua volta, l’Opera si fa piena, si riempie di sé.
Giulio II, uomo d’azione votato alla Vita attiva, fu profondamente ispirato da Mosè una figura biblica assai emblematica costretto a cercare nuovi orizzonti e nuove prospettive per il bene comune.
Mosè, uomo etico agitato dalla responsabilità, convocato da Dio al proprio cospetto e chiamato ad agire un eroico imprevisto e difficile, dovette essere paziente e tutto d’un pezzo di fronte alla sua comunità disgregata e ostile. Alla fine guidò un popolo verso la salvezza.
Ciò a testimonianza che l’Umano incontra puntualmente l’Eroico, ma non si tratta mai di un Eroico facile, pulito, lineare e perfetto. Piuttosto si tratta sempre di un percorso doloroso di consapevolezza.
Michelangelo amò particolarmente la scultura.
Per quanto costretto da Giulio II a dedicarsi al progetto della Cappella Sistina, ne trasse un capolavoro indiscutibile. Qui la pittura è così energica e plastica da assomigliare proprio alla scultura.
Ma dovette attendere quarant’anni prima di realizzare l’opera scultorea che fu progressivamente ridimensionata. Fu quasi il relitto di una grande idea. Alla fine lo definì la maledetta sepoltura.
All’interno di un gruppo scultoreo che rimane una scenografia complessa e magnifica, pur nei ripetuti rimaneggiamenti, realizzò un capolavoro geniale. Scolpì un insieme di statue che dialogano perfettamente tra loro, che rifinì sul posto e lustrò diversamente assecondando la luce che proveniva dalle finestre per dare profondità alle figure così come si fa in pittura.
Scolpì in particolare una figura di Mosè in posizione seduta, terribile almeno quanto lui, ma non è il Mosè biblico.
Qui si vede un uomo illuminato e sveglio, appena sceso dal monte Sinai, un uomo dalla lunghissima barba, dalla notevole presenza fisica e forza psichica cosi come fu Giulio II con la sua volontà di potere.
Tutto il suo corpo è in tensione e in torsione e in particolare la testa subì nell’ultima versione una rotazione verso sinistra come a voler distogliere lo sguardo dalla venerazione dei Sacri Vincoli, altra forma di Vitello d’Oro dell’epoca per via delle offerte dei pellegrini e cercare altri sguardi.
Ma potrebbe indicare anche un uomo distolto dal suo meditare, dal suo sguardo interiore e attratto dal frastuono dei festanti.
Infine Giuliano della Rovere, posto superiormente, è giacente e dormiente su un gomito. Se gli occhi del Papa sono chiusi a cercare il suo eterno riposo quelli di Mosè non possono che essere ben aperti e vigili a cercare una riappacificazione con l’Eterno.
Per di più tutto il corpo del papa è in abbandono; l’abito papale sceso sulle spalle che fa intravedere la camicia stropicciata parla di un uomo umano e dismesso che ha smesso i panni del potere, nonchè le mani abbandonate indicano qualcuno arreso alla morte.
Fu l’ultima grande opera dell’artista prima di morire. Uno sforzo e un travaglio immane. Il monumento funebre è quasi un paradosso per chi sta nella fase finale della propria vita.
L’Opera è ospitata nella Basilica di Roma dedicata a Pietro, altro uomo apparentemente roccioso, ma in realtà vinto dalla paura. Qui i vincoli esposti, ovvero le catene che incatenarono a Gerusalemme colui che distolse lo sguardo da Gesù, che gli voltò le spalle e lo tradì testimoniano di una ritrovata e rinnovata direzione, di uno sguardo ristabilito.
Al contrario Gesù non staccò mai gli occhi da Pietro, colui che sarà perdonato già dallo sguardo. Si narra che da allora lo sguardo di quest’ultimo fu umido e commosso perchè fatto di gioia e riconoscenza, perchè pianse tutta la vita per essere stato perdonato.
Nel suo Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori del 1568 Giorgio Vasari, storico dell’Arte contemporaneo e amico di Michelangelo, scrisse ammirato della barba di Mosè che sembrava più “opera di pennello che di scalpello”.
In più così annota: “A questa statua non sarà mai cosa moderna alcuna che possa arrivare di bellezza, e de le antiche ancora si può dire il medesimo […] Et inoltre alla bellezza della faccia, che ha certo aria di vero Santo e terribilissimo principe, pare che mentre lo guardi abbia voglia di chiedergli il velo per coprirgli la faccia, tanto splendida e tanto lucida appare altrui […] Et ha sì bene ritratto nel marmo la divinità che Dio aveva messo nel santissimo volto di quello […] che Moisè può più oggi che mai chiamarsi amico di Dio….”
Quattro secoli più tardi a 75 anni Jacob Freud, padre di Sigmund di fede ebraica regalò al figlio allora trentacinquenne una Bibbia con una dedica. Da quel momento il suo interesse per la religione si acuì fino a scrivere nel 1938 L’uomo Mosè e la religione monoteista manifestando la sua suggestione per questa figura che visse con inquietudine per tutta la vita.
Nel suo nevrotico desiderio di Roma (Lettera a Fliess del 3 gennaio 1887), come egli stesso ebbe a definirlo, Freud fu combattuto a lungo tra la curiosità e il timore. Ne è prova il suo L’interpretazione dei sogni in cui racconta di una serie di sogni in proposito (Freud, 1900).
Finalmente Freud ruppe ogni indugio e, vincendo la paura del treno, del colera, della malaria, dello scirocco e delle pulci, trovò la strada per Roma.
Vi giunse in una notte in treno nel 1901 per poi tornarvi più volte esprimendosi in forme sempre più entusiastiche. Se sulla sua prima volta scrisse alla moglie Marta: “Sembra incredibile non essere venuti qui prima” (Cartolina a Marta del 2 settembre 1901), successivamente scrisse: “È la città più bella e eterna, di una bellezza senza paragoni” (Lettera ai figli del 12 settembre 1913).
Visitò il Pantheon, la Cappella Sistina, l’Appia Antica, il Palatino e la fontana di Trevi lamentando in coclusione “peccato non si possa vivere sempre qui” (Lettera alla famiglia del 24 settembre 1907).
Di fatto il primo incontro con la statua del Mosè avvenne nel 1901 in occasione del suo primo viaggio, in seguito a un diverbio con due allievi, Adler e Steckel. Dunque il primo Freud che giunse a Roma fu un Freud profondamente irritato e arrabbiato, un Freud in fuga da Vienna.
Nel tempo la questione divenne particolarmente intensa e coinvolse il suo senso paterno. In un successivo soggiorno nel 1913 si sentì costretto a tornare ogni giorno per un mese ad ammirare l’opera, o forse si dovrebbe dire spiare o scrutare, a fare le sue sedute, fino a quando confidò alla moglie Martha dell’intenzione di scrivere un articolo. L’articolo dal titolo Il Mosè di Michelangelo apparve in forma anonima nel 1914 sulla rivista Imago. Ne riconobbe la paternità solo 10 anni dopo, nel 1924.
Venti anni più tardi scrisse: “Provo per quest’opera lo stesso sentimento per un figlio illegittimo. Per tre solitarie settimane del settembre 1913 sono andato ogni giorno nella chiesa a contemplare la statua e l’ho studiata, misurata, disegnata, fino a che non ho catturato la scintilla di comprensione che poi, nel saggio, ho osato esprimere soltanto restando anonimo. E’ dovuto passare molto tempo prima che riuscissi a legittimare questo figlio nato fuori dalla psicoanalisi”.
Qui, dopo un iniziale tentativo di resistere alla commozione, si sentì nudo, spogliato delle vesti dello studioso, per cui riconobbe di essere stato colpito nell’intimo, di aver provato stupore e turbamento. Provò inutilmente a superare ciò che definì impenetrabile. Se l’Uomo non penetrò con lo sguardo l’Opera, l’Opera penetrò l’Uomo.
Descrisse il percorso che dalla brutta via Cavour, attraverso le ripide scale lo portava alla piazza solitaria e la chiesa deserta. Potremmo dire che visse una sindrome di Stendhal, con quella sintomatologia ben nota fatta di tachicardia, tremore e senso di confusione.
Qui sperimentò lo stesso imbarazzo della folla che si sottrae alla responsabilità e alla pazienza della fede per abbandonarsi a più facili idoli.
Vide ira nelle sopracciglia contratte, dolore nello sguardo e disgusto negli angoli della bocca ripiegati verso il basso.
Fu particolarmente colpito dall’impulsività caratteriale di Mosè, quell’impazienza che gli fece gettare a terra le Tavole delle Leggi e che fu punita da Dio.
Freud ammise di non riuscire affatto a “tener testa allo sguardo corrucciato e sprezzante dell’eroe e di svignarsela quatto, quatto nella penombra” tra le navate di S. Pietro in Vincoli (Freud, 1913).
A prima vista Freud sente gli occhi addosso di Mosè, percepisce la sua ira per chi come lui è l’uomo moderno che interpreta un Israele incredulo; lo immagina ergersi in piedi infuriato e gettare, ancora una volta, le Tavole della Legge per terra. Ma il dettaglio del nodo della barba nella mano sinistra di Mosè lo guida verso un’altra direzione.
A un tratto Freud si persuade che Mosè stesse tirandosi la barba rinunciando a dar corso alla rabbia, trattenendosi dallo scattare in piedi e restando seduto. E’ la ragione a prevalere sulla passione. In ciò intravide una scelta saggia, per quanto vi sia sempre il rischio di una rabbia pietrificata.
Resterebbe da chiedersi se a sublimare la rabbia sia stato unicamente Freud. Quelli furono anni davvero difficili per il padre della Psicanalisi, amareggiato dal dissidio e dall’infedeltà del suo migliore allievo, Carl Gustav Jung, e dall’ingratitudine di altri così come fu per Mosè.
Anche per lui fu urgente dunque ritrovare un centro da cui ripartire per guidare la sua Psicanalisi verso la Terra Promessa. In ciò l’incontro ravvicinato con Mosè, il profeta del traghettamento, risultò un’esperienza identificatoria e terapeutica determinante.
Nel suo essersi intrattenuto a lungo seduto come ipnotizzato di fronte alla statua a contemplare l’opprimente solennità confermò l’insostenibilità dello sguardo reciproco e, in particolare, in presenza di particolari interlocutori.
Così in questa intensa diffusione dell’io sviluppò una relazione quasi morbosa, che malcelava non solo una certa ansia e sudditanza, ma perfino una dinamica allucinatoria.
Più tardi nell’apprendere che l’amico Ernest Jones si sarebbe recato a breve a Roma non si limitò a chiedergli di salutare Mosè, ma di esprimergli devozione da parte sua. In risposta a ciò Jones gli scrisse con leggera ironia di aver notato un leggero cedimento nell’ira della statua.
In sintesi Freud se sanò i vissuti fobici rispetto alla città eterna, non fu così per l’eroe biblico.
Se nel 1925, a distanza di tre anni dal suo ultimo viaggio romano ammise: “Sono così diventato un appassionato pellegrino di Roma”, fin quasi alla sua morte tentò di chiudere i conti con Mosè. Più volte si sforzò di metterlo da parte, ma questi ricompariva come un fantasma. L’ossessione e il tormento non si esaurirono mai così come accadde a Michelangelo.
Nel 2004 Michelangelo Antonioni, novantenne e privato della parola in seguito a un ictus, realizza un documentario silenzioso della durata di 15 minuti, Lo sguardo di Michelangelo, giocando sull’omonimia e su un doppio tra l’artista rinascimentale e il regista.
E’ una piccola opera, l’ultima, dunque un opera testamentale, una riflessione sul vedere alla fine di una brillante carriera. Qui il regista si espone allo sguardo dello spettatore, si fa vedere mentre si accosta all’opera per mettersi in ascolto sopraffatto dall’emozione.
Alla fine dovremmo tutti riuscire a vedere al di sopra della Materialità, partendo dalla benevolenza nello sguardo di Mosè e del suo intenso Paterno.
C’è l’emergere di uno Sguardo superiore che supera l’Umano, la reattività personale e che vede con chiarezza inusuale il Bene superiore e il Progetto.
L’Interpretazione dei sogni SIGMUND FREUD 1900
Il Mosè di Michelangelo SIGMUND FREUD 1913
L’uomo Mosè e la religione monoteistica SIGMUND FREUD 1938
L’essere e il nulla JEAN-PAUL SARTRE 1943
La camera chiara ROLAND BARTHES 1980
Il Mosè di Freud YOSEF HAYIM YERUSCHALMI 1996
Il marmo e la mente CHRISTOF FROMMEL 2014
Sigmund Freud (1856-1939) fu il primo studioso a esplorare il mondo onirico con occhi nuovi e con metodo strappando il sogno al folklore popolare e alla filosofia. La sua analisi dell’Ebraismo è sempre stato visto come un attacco. Fu attratto dalla tesi per cui il Monoteismo fosse un’invenzione egiziana e di Mosè che alla fine fu ucciso dal suo popolo.
Jean-Paul Sartre (1905-1980) filosofo e scrittore francese, nel suo pensare filosofico sostenne che l’io ha bisogno dello sguardo dell’altro per definirsi in quanto oggettivato e che lo sguardo reciproco genera un trascendersi reciproco.
Roland Barthes (1915-1980), finissimo semiologo francese, indagò nel suo ultimo libro attraverso la dinamica fotografica sulla condizione psicologica del guardato e della fame spesso predatoria di chi guarda.
Yosef Hayim Yerushalmi (1932-2009) è stato un importante storico ebreo statunitense, cresciuto nel Bronx, particolarmente esperto della storia dei marrani, ebrei costretti a convertirsi in Europa durante il Medioevo. Vide in Freud un ebreo atipico e ambivalente che visse l’ebraismo delle sue origini tra rimozione e proiezione, confondendo a tratti l’analisi con l’autobiografia. Non a caso nel suo saggio parla di Giudaesimo interminabile.
Christof Frommel, storico dell’Arte tedesco, studioso rigorosissimo del Rinascimento romano, sostiene il senso e la completezza del complesso funerario di Giulio II di Michelangelo in risposta alle precedenti tesi riduttive.
Lo sguardo di Michelangelo MICHELANGELO ANTONIONI 2004
Michelangelo – Infinito EMANUELE IMBUCCI 2018
Sin ANDREY KONCHALOVSKIY 2019
Michelangelo Antonioni (1912-2007) si accosta al Buonarroti con il rispetto e la delicatezza della sua maturità artistica per tracciare uno sguardo intimistico con l’Opera scultorea, assolutamente non verbale in quanto c’è un indicibile che dovrebbe rimanere tale.
Emanuele Imbucci affida al Vasari il compito di introdurci nella vita di Michelangelo alla ricerca della scintilla iniziale che generò tutta quella forza passionale intorno alla materia marmorea per poi intrattenerci nella cava Ruggetta sulle Alpi Apuane, un’area limbica che racconta la sfida con la pietra e infine descrivere una capacità di astrazione fuori dall’ordinario e la speciale predilezione per il non finito.
Andrey Konchalovskiy, regista russo e co-sceneggiatore del film, mostra senza veli e senza effetti speciali un uomo fin troppo uomo, istintivo e violento, ossessionato dalla materia bianca come lo zucchero, dalla gloria, dal denaro e dal peccato, ma anche tutta la fatica sporca e il sudore del cavatore che nella nebbia polverosa strappa il marmo alla montagna e dello scultore che strappa a scalpellate la figura al marmo. Se Michelangelo fu un uomo incapace di guardare dentro le persone, seppe invece scavare con gli occhi nella pietra. Per chi, come spettatore, è disponibile alla disillusione e si presta a sostenere lo sguardo su parti meno nobili del sé, il regista, appresa la lezione di Tarkovskii, propone il peccato come forma credibile dell’essere.